: Luigi Pirandello
: I vecchi e i giovani
: Mauro Liistro Editore
: 9783963618307
: 1
: CHF 0.90
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: Erzählende Literatur
: Italian
: 444
: Wasserzeichen
: PC/MAC/eReader/Tablet
: ePUB
È un romanzo sociale di ambientazione siciliana. È la Sicilia dei sanguinosi moti dei -Fasci- del 1893, sconvolta dalle lotte di classe, con i clericali da un lato, tesi ad impedire il consolidamento del nuovo regime liberale, e la classe dirigente dall'altro, che disperde nel disordine morale i sacrifici e i meriti acquisiti. Più che casi individuali, i personaggi del romanzo interpretano i diversi aspetti della complessa situazione storica che stanno vivendo. Così il principe don Ippolito di Colimbetra, fedele suddito borbonico; don Flaminio Salvo, esponente della nuova borghesia capitalista; Roberto Auriti, glorioso garibaldino che si spegne in un'esistenza amorfa; il giovane principe Gerlando di Colimbetra, sostenitore delle nuove idee e per questo costretto all'esilio. I personaggi rappresentano un contrasto di concezioni e di ideali che si risolve nel contrasto tra due generazioni: quella che ha fatto l'Unità e che vede perduta l'eredità del Risorgimento, e quella più giovane, che nel gretto conservatorismo dei padri scorge solo la difesa di interessi reazionari. Ne I vecchi e i giovani l'autore esprime un giudizio storico molto severo sul processo di riunificazione dell'Italia e dello stato nato da essa. Non a caso Carlo Salinari, analizzando questo romanzo, parla di tre -fallimenti collettivi- riferendosi al Risorgimento, come mancato moto generale di rinnovamento dell'Italia; all'unità, come fallito strumento di liberazione e di sviluppo delle zone più arretrate e in particolare della Sicilia e dell'Italia meridionale; e al socialismo, che avrebbe potuto essere la ripresa del movimento risorgimentale. Questi fallimenti si sovrappongono poi a quelli -individuali- 'dei vecchi che non hanno saputo passare dagli ideali alla realtà e si trovano a essere responsabili degli scandali, della corruzione e del malgoverno dei giovani'.

Luigi Pirandello (Girgenti, 28 giugno 1867 Roma, 10 dicembre 1936) è stato un drammaturgo, scrittore e poeta italiano, insignito del Premio Nobel per la letteratura nel 1934. Per la sua produzione, le tematiche affrontate e l'innovazione del racconto teatrale è considerato tra i maggiori drammaturghi del XX secolo. Tra i suoi lavori spiccano diverse novelle e racconti brevi (in lingua italiana e siciliana) e circa quaranta drammi, l'ultimo dei quali incompleto.

Capitolo quarto


In fondo al vestibolo, tra i lauri e le palme, su lo sfondo della gran porta a vetri colorati, la preziosa statua acefala di Venere Urania, scavata a Colimbètra nello stesso posto ove ora sorge la villa, pareva che non per vergogna della sua nudità tenesse sollevato un braccio davanti al volto ideale che ciascuno, ammirandola, le immaginava subito, lievemente inclinato, come se in realtà vi fosse; ma per non vedere inginocchiati alla soglia della cappella che si apriva a destra tutti quegli uomini così stranamente parati: la compagnia borbonica di capitan Sciaralla. La messa era per finire. Dentro la cappella, lucida di marmi e di stucchi, stavano soltanto il principe don Ippolito, raccolto nella preghiera su l'inginocchiatojo dorato e damascato, innanzi all'altare; più indietro, Lisi Prèola, il segretario; più indietro ancora, le donne di servizio: la governante e due giovani cameriere. La servitù mascolina doveva contentarsi d'assistere alla messa dal vestibolo; solo a Liborio, cameriere favorito del principe, in brache corte e calze di seta, era concesso di star su l'entrata, più dentro che fuori; e questa pareva a Sciaralla un'ingiustizia del Prèola, bell'e buona. In qualità di capitano, egli si riteneva degno di sedere per lo meno accanto al Prèola stesso, se non subito dopo il principe, ecco. Apertamente, no, non se ne lagnava, per prudenza; ma ci pigliava certe bili! E come d'un peccato d'invidia se n'era confessato a don Lagàipa, che ogni domenica veniva a Colimbètra a dir messa. — Almeno davanti a Dio dovremmo essere tutti eguali, ecco! Tutti, escluso il principe; non c'era bisogno di dirlo. Ma lui, Sciaralla, non si lagnava perché voleva esser favorito, messo avanti agli altri, distinto dai suoi subalterni al cospetto di Dio? Le corna aveva dunque, le corna e la coda del demonio, quella sua riflessione, che pur sembrava giusta a prima giunta. Così don Illuminato Lagàipa aveva tappata la bocca a Sciaralla.

E Sciaralla, un sospirone.

Vera tentazione del demonio era intanto quella statua nuda, lì davanti la cappella, per tutti quegli uomini di guardia che dovevano star fuori. Mentre le labbra recitavano le preghiere, gli occhi eran quasi costretti a peccare guardando senza volerlo quella nudità, che S. E. il principe, tanto divoto, non avrebbe dovuto tenere così esposta! Oh maledetta! Sembrava viva, sembrava… Le povere donne di servizio abbassavano gli occhi, ogni volta, passando; e anche don Illuminato li abbassava, pezzo d'ipocrita!

Ridevano intanto, fiorenti, le mirabili forme della dea decapitata, emersa dal tempo remoto, nata da uno scalpello greco, da un artefice ignaro che la sua opera dovesse tanto sopravvivere e parlare a profana gente un linguaggio diabolico, ornamento d'un vestibolo, tra cassoni di lauri e di palme.

Finita la messa, gli uomini della compagnia di guardia fecero ala su l'attenti, al passaggio del principe che si recava alMuseo.

Così eran chiamate le sale a pianterreno dell'altro lato del vestibolo, nelle quali tra alte piante di serra erano raccolti gli oggetti antichi, d'inestimabile valore: statue, sarcofaghi, vasi, iscrizioni, scavati a Colimbètra, e che don Ippolito aveva illustrati molti anni addietro nelle sueMemorie d'Akragas, insieme col prezioso medagliere esposto su, nel salone della villa.

L'antica famosa Colimbètra akragantina era veramente molto più giù, nel punto più basso del pianoro, dove tre vallette si uniscono e le rocce si dividono e la linea dell'aspro ciglione, su cui sorgono i Tempii, è interrotta da una larga apertura. In quel luogo, ora detto dell'Abbadia bassa, gli Akragantini, cento anni dopo la fondazione della loro città, avevano formato la pescheria, gran bacino d'acqua che si estendeva fino all'Hypsas e la cui diga concorreva col fiume alla fortificazione della città.

Colimbètra aveva chiamato don Ippolito la sua tenuta, perché anch'egli lassù, nella parte occidentale di essa, aveva raccolto un bacino d'acqua, alimentato d'inverno dal torrentello che scorreva sotto Bonamorone e d'estate da una nòria, la cui ruota stridula era da mane a sera girata da una giumenta cieca. Tutt'intorno a quel bacino sorgeva un boschetto delizioso d'aranci e melograni.

Nel museo don Ippolito soleva passare tutta la mattinata, intento allo studio appassionato e non mai interrotto delle antichità akragantine. Attendeva ora a tracciare, in una nuova opera, la topografia storica dell'antichissima città, col sussidio delle lunghe minuziose investigazioni sui luoghi, giacché la sua Colimbètra si estendeva appunto dov'era prima