4.
Già mezzodì era sonato, e dei trenta che dovevano partecipare al banchetto su alCastello di Costantino solo cinque eran venuti, che si pentivano in segreto della loro puntualità, temendo potesse parer soverchia premura o troppa degnazione.
Prima fra tutti era venuta Flavia Morlacchi, poetessa, romanziera e drammaturga. Gli altri quattro, sopraggiunti, la avevano lasciata sola, in disparte. Erano il vecchio professore d'archeologia e poeta dimenticato Filiberto Litti, il novelliere piacentino Faustino Toronti, lezioso e casto, il grasso romanziere napoletano Raimondo Jàcono e il poeta veneziano Cosimo Zago, rachitico e zoppo d'un piede. Stavano tutt'e cinque nel terrazzo, innanzi alla sala vetrata.
Filiberto Litti, lungo asciutto legnoso, con baffoni bianchi e moschetta, un pajo d'enormi orecchie carnose e paonazze, parlava, balbutendo un po', delle rovine là del Palatino, come di cosa sua, con Faustino Toronti ormai vecchiotto anche lui, così che non pareva, sarchiati i capelli su gli orecchi e i baffetti ritinti. Raimondo Jàcono voltava le spalle alla Morlacchi e guardava compassionevolmente lo Zago, il quale ammirava nella fresca limpidezza di quel dolcissimo giorno d'aprile tutto il verde paese che si scopriva di là.
Arrivava appena al parapetto del terrazzo, il poverino; ancora con un vecchio pastrano inverdito che gli sgonfiava da collo, aveva posato su la cimasa una mano nocchieruta, dalle unghie rose, deformata dallo sforzo continuo di spingere la stampella, e ora, socchiudendo gli occhi dolenti dietro gli occhiali, ripeteva come se non avesse mai goduto in vita sua di tanta festa di luce e di colori:
- Che incanto! Come inebria questo sole! - Che vista!
- Già... già... - masticò il Jàcono. - Molto bella. Meravigliosa. Peccato che...
- Quei monti laggiù laggiù, aerei... fragili, quasi... sono ancora gli Albani?
- Gli Appennini o gli Albani, non svenire! Puoi domandarlo qua al professor Litti, che è archeologo.
- E che ci han da fare, scusi, i monti, scusi, con... con l'archeologia? - domandò un po' risentito il Litti.
- Professore, voi che dite! - esclamò il napoletano. - Monumenti della natura, della più venerabile antichità... Peccato che... dicevo... sono le dodici e mezzo, ohè! Ho fame io.
La Morlacchi, di là, fece una smorfia di disgusto. Gonfiava in silenzio, ma si fingeva incantata dello stupendo paesaggio. Gli Appennini o gli Albani? Non lo sapeva neanche lei, ma che importava il nome? Nessuno come lei, più di lei, sapeva intenderne l'«azzurra» poesia. E domandò a se stessa se la parolacolombario... austerocolombario, avrebbe reso bene l'immagine di quelle rovine del Palatino: occhi ciechi, occhi d'ombra dello spettro romano feroce e glorioso, indarno aperti ancora là, sul colle, a lo spettacolo della verde vita maliosa di questo Aprile d'un tempo lontano.
Di questo Aprile d'un tempo lontano...
Bel verso! Languido...
E abbassò su gli occhi torbidi e scialbi, di capra morente, le grosse pàlpebre gravi. Ecco, aveva spiccato dalla natura e dalla storia il fiore d'una bella immagine, in grazia della quale poteva non pentirsi più ora,